Bambina e la ballerina

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Bambina e la ballerina

L’avevano chiamata Bambina quando era nata. Ovvio.

Si era trascinata quel nome per tutta la vita, con simpatia, non potendo e non volendo cambiare, anche adesso che era nonna. Se le andava di fare qualche sciocchezza, si giustificava dicendo che era colpa del nome. Una sistemata alla coperta sulle gambe, perché non si incastrasse nella ruota. Cominciava ad abituarsi, anche se stare sulla sedia a rotelle non la rendeva felice. Ma era l’unico modo per muoversi, per avere un minimo di autonomia dopo l’intervento. Aveva persino trovato la forza di ridere, quando la dottoressa le aveva detto che in fondo sarebbe stata come una ballerina, una di quelle che ruotano su se stesse nei carillon di cinquant’anni fa, chissà se ne fanno ancora.

Tutta la vita su una gamba sola, non facile, ma se è un prezzo da pagare per stare al mondo si fa anche quello. Se ne era accorta andando al mercato: un paio di banchi, due borse della spesa, non riusciva più ad arrivare in fondo, fino alle bancarelle dei formaggi, doveva fermarsi prima.

Il dolore al piede l’aggrediva con violenza, sempre nei momenti meno opportuni, quando era per strada, quando aveva un sacco di cose da fare, quando era di fretta…Doveva fermarsi qualche minuto, facendo finta di scegliere sul banco dei golf, poi passava così come era venuto. Fino alla volta dopo. Negli ultimi tempi gli attacchi erano diventati più frequenti, e ci voleva più tempo per farli passare. E il dolore saliva fino al polpaccio e alla coscia. Era sempre vissuta in compagnia, sveglia la mattina presto, non c’era distinzione fra lavori da uomo e lavori da donna, chiunque vivesse nella sua cosa doveva occuparsi di tutto: in una famiglia come la sua non c’era spazio per le lamentele. Suo padre era cambiato da quando aveva avuto l’Infarto, si era chiuso in se stesso: si sentiva inutile, umiliato, incapace di provvedere alla sua famiglia, e malinconico. Le iniezioni di insulina tre volte al giorno venivano accolte sempre con uno sbuffo di insofferenza, e quando Bambina gli porgeva le pastiglie per la pressione a volte aveva paura, vedendo la rabbia nei suoi occhi. E non aveva mai smesso di fumare.

Quando sua figlia le aveva regalato la nipotina, nella sua vita insieme a Chiara era rientrata la gioia: era ancora una nonna giovane, si spostava in campagna con la bicicletta, avrebbe avuto molto da insegnare a quella neonata. Se l’erano goduta, insieme, loro due, a fare le matte su è giù per i sentieri battuti: adesso basta, non l’avrebbe più fatto. Era stata una Trombosi, più cattiva delle solito, il medico glielo aveva detto. Le sue arterie erano malate, si erano ammalate lentamente negli anni, perché Bambina aveva la pressione alta, ma non l’aveva mai misurata, e aveva il diabete e non lo sapeva. È vero, aveva notato che quando si feriva alle mani lavorando nell’orto, la pelle tardava a rimarginarsi: e che i suoi denti ne avevano sofferto, si diceva un figlio un dente, ma negli ultimi anni ne aveva persi più del normale… era il diabete, il medico glielo aveva spiegato. Troppo zucchero nel sangue, che non arriva a destinazione. Come suo padre. Ferite che rimarginano lentamente, infezioni che fanno fatica a guarire, desiderio di cibi dolci: e le sue arterie incrostate come gli impianti idraulici di una casa abbandonata.

Brutta bestia l’aterosclerosi: sta lì, subdola, ti lavora le arterie, senza che uno se ne accorga, le rovina, coprendole di ruggine, o qualcosa del genere, finché eccola là, si forma un bel coagulo di sangue, che, anche se si chiama dignitosamente trombo, per Bambina era comunque un volgarissimo grumo di sangue, ti tappa l’arteria e tu ti ritrovi a diventare una ballerina a sessant’anni. Non le avevano dato scampo i medici l’ultima volta: quando la gamba era diventata nera, le avevano detto che potevano salvarle la vita, ma non la sua gamba. Non ci aveva pensato troppo a lungo, aveva deciso quasi subito: aveva ancora un sacco di cose da fare. Le avevano spiegato che nel sangue si era creato una specie di complotto, fra lo zucchero, il colesterolo, i fattori della coagulazione, che aveva fatto il disastro. La pressione alta aveva le sue colpe, e lei anche, soprattutto perché non se l’era mai misurata.

E quell’enzima nel sangue zoppo, pure lui aveva un nome senza vocali, come un rumore, MTHFR, quello che avrebbe dovuto tenere basso il livello di una sostanza pericolosa, omocisteina, si chiamava: non funzionava, quella saliva, e le arterie si ammalavano. Era arrivata a sessant’anni senza sapere niente di tutto questo: lo aveva scoperto perché era successo qualcosa a Chiara. Era tornata da scuola di cattivo umore, ma la mamma l’aveva scoperta subito: male alla gamba, un cordone rosso, duro, al posto della pelle chiara, una corsa in ospedale, una diagnosi di tromboflebite, e la cura con i farmaci giusti. Povera Bambina, si era molto spaventata. Quando il medico aveva scoperto il difetto della coagulazione, aveva chiesto di poter eseguire gli esami sul resto della famiglia: ed era saltata fuori la sua storia. Non ne aveva colpa, ma dipendeva tutto da lei. Era da lei che sua nipote aveva ereditato, attraverso la mamma, il difetto: proprio da lei, la sua nonna preferita. Era una mutazione, anzi erano due: una faceva salire nel sangue i livelli dell’omocisteina, l’altra si chiamava Leiden, e faceva coagulare il sangue in modo esagerato. La storia di Chiara era finita bene, per fortuna: la vena si era ripulita completamente, grazie ai farmaci anticoagulanti, Chiara non avrebbe mai fumato per non correre altri rischi, e il medico le aveva raccomandato di non prendere la pillola, per non aumentare il rischio di una nuova trombosi. Per la gravidanza, nessun problema: avrebbe avuto bambini quanti ne voleva, ma proteggendosi per nove mesi con un farmaco anticoagulante. Da qualche tempo con le vitamine che le aveva dato il medico, Bambina si sentiva meglio: aveva solo più fame, ma non poteva esagerare per via del diabete, aveva voglia di correre, ma non poteva perché era una ballerina con una gamba sola, aveva voglia di tenerezza, e poteva averne quanta ne voleva da tutte le persone che le vivevano accanto, perché era viva.

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