Cecilia e il soffio

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Cecilia e il soffio

Le avevano fatto l’intervento chirurgico quando aveva venticinque anni.

Una parte del suo cuore non funzionava bene, era una valvola, la valvola mitralica: le faceva venire in mente il papa, con la mitra in testa: evidentemente non c’entrava.

Era stato un microbo, aveva anche un nome che non sembrava poi così tremendo: streptococco, un aspetto mansueto al microscopio, il medico glielo aveva mostrato su un vetrino, sembrava una catenella, niente di che.

Eppure, aveva tentato di rovinarle la vita, anzi, di portargliela via: aveva tentato di farle vedere l’erba crescere dal di sotto, lo aveva detto il professore.

Era partito dalle tonsille, di solito alloggiava lì, in una di quelle due rotelle rosa, morbide, che stanno in fondo alla gola, che dovrebbero produrre gli anticorpi, le bombe con cui il corpo si difende dagli attacchi dei microbi.

La bestia aveva superato la barriera delle bombe, si era costruita il suo rifugio proprio nella santa barbara, e ogni tanto da lì scatenava il mal di gola: e uno di quei febbroni che più o meno tutti i bambini prima o poi hanno, e che li fanno diventare al primo momento bellissimi, con la faccia rossa e le guance paffute, forse un po’ troppo paffute, gli occhi che diventano lucidi, e sembrano più belli, e il respiro un po’ troppo frequente, e l’alito con un odore un po’ dolciastro, sgradevole, forte: le mamme lo riconoscono subito.

La tonsillite era una buona scusa per portarla al mare spesso, appena possibile: là stava meglio, si ammalava meno, anche se le mancavano molto le sue amiche, i suoi giocattoli.

Un giorno il microbo aveva deciso di staccarsi dalle tonsille e di andare a dare un’occhiata in giro: aveva preso la via del mare, anche lui, si era infilato nel sangue e aveva nuotato, aveva raggiunto la sua valvola, nel cuore, e lì si era installato, moltiplicandosi gloriosamente e senza freni, finché l’aveva irrimediabilmente rovinata.

Le tonsille quando si ammalano danno segno di sé: la valvola no.

La valvola sta dentro il cuore, non si vede, non puzza, ma si ammala. La valvola costringe il sangue ad andare nella direzione giusta, altrimenti quello torna indietro. È come una porta, con i battenti che si aprono e si chiudono, continuamente, per tutta la vita, ogni volta che il cuore batte: 60 volte in un minuto, 3600 volte in un’ora, 3600 x 24 in un giorno, 3600 x 24 x 30 in un mese.

Un lavoro enorme, senza riposo, per due piccole porte, una grande responsabilità.

L’orecchio del medico può ascoltare la valvola: se il rumore non è pulito e nitido, il medico dichiara che c’è un soffio, qualcosa che non va.

La valvola era sopravvissuta all’attacco dello streptococco, ma aveva riportato ferite multiple, e un soffio che sembrava lo scroscio di una cascata: le cicatrici l’avevano compromessa, si era raggrinzita, era diventata stretta, molto stretta e si muoveva male.  L’avevano anche esonerata dalla ginnastica a scuola, perché quando si affaticava le mancava il respiro, più che alle sue compagne: stare seduta per terra a guardarle giocare era noioso, ma le asciava anche tanto tempo per pensare.

La mamma la chiamava «gatto mio»: diceva che comunque le rimanevano ancora sei vite da spendere, sulle sette date in concessione a tutti i gatti.

Una se l’era giocata, con le altre avrebbe fatto faville. Infatti.

Sentiva il suo bambino muoversi dentro la pancia, percepiva tutti i suoi movimenti, anche i più fini, ormai, li sentiva dentro, nel suo corpo, con le mani poggiate sulla pelle tesa.

Il parto sarebbe stato entro pochi giorni: chissà se a suo figlio nella pancia il ticchettio della sua valvola metallica dava fastidio. A lei ormai non più.

All’inizio molto, quando il chirurgo le aveva tolto la valvola malata e l’aveva sostituita con una protesi metallica: che nome, protesi! Le faceva venire in mente la dentiera, e comunque la vecchiaia; lei era giovane, e aveva una protesi speciale, una valvola meccanica, finta, di metallo.

Quando si apriva e si chiudeva faceva rumore, un clic, si sentiva chiaramente, soprattutto la notte, quando si addormentava sul fianco. Si sentiva come il coccodrillo di Capitan Uncino.

I primi tempi non riusciva quasi a dormire, stava sveglia per controllare, terrorizzata che quel clic sparisse, che la valvola si fermasse, si rompesse… poi il medico, una donna, le aveva spiegato che quello era un rumore rassicurante, che somigliava a quello che lei aveva sentito per tutti i mesi in cui era rimasta nella pancia della sua mamma, amplificato dall’acqua e dai tessuti che la avvolgevano, che era un segno di vita.

E si era tranquillizzata.

La valvola non si era fermata, aveva continuato a battere, imperterrita, anche durante la gravidanza: chissà, forse il suo bambino da grande avrebbe scelto di suonare la batteria, così, tanto per non perdere l’abitudine al rumore!

La pelle del ventre era tesa, e con qualche macchia verdina e giallastra, un po’ bugnata, come certi muri a Firenze: per la verità anche le cosce non erano un granché, sembravano una carta geografica, piene di lividi.

Doveva portare pazienza ancora per un paio di mesi: un’iniezione tutte le sere, la faceva da quando aveva scoperto di essere incinta.

Si iniettava l’eparina, nome carino, quasi un diminutivo, rassicurante, uno strumento musicale.

Invece era un farmaco, potente e sicuro, fluidificava il suo sangue, per impedirgli di formare incrostazioni sulla valvola: lo avrebbe fatto, se fosse stato lasciato a se stesso, avrebbe foderato la valvola con tanti piccoli coaguli, per nasconderla, perché era un’estranea, nel cuore… e sarebbe stato un disastro.

Prima della gravidanza le bastava una pastiglia per tenere il sangue a freno, e farlo ragionare: fluido abbastanza da non formare coaguli sulla valvola, non troppo, perché rimanesse capace di coagulare quando doveva.

Fantastici, i farmaci anticoagulanti: non le avevano dato nessun problema, solo la seccatura di fare un prelievo una volta al mese, e di seguire le indicazioni del suo medico, indicazioni abbastanza perentorie, ma le avevano permesso di sentirsi viva.

Da quando aveva iniziato la gravidanza, anzi, da quando l’aveva pensata, aveva sostituito le pastiglie con le iniezioni, per non danneggiare lo sviluppo del bambino.

Negli occhi un sorriso, nel cuore la tenerezza, e una canzone, al ritmo della valvola, metallica, efficiente, amica.

E pensare che non voleva sposarsi: perché la cicatrice in mezzo al seno bella non era.

Quando l’avevano operata non le importava niente del suo cuore, ma di essere devastata sì, non l’avrebbe mai voluta nessuno, con quell’orrendo segno.

Si sarebbe sempre sentita come una vecchia sveglia, una bomba a orologeria, e non era nemmeno grassa, rimbombava: avrebbe capito il suo fidanzato? Si sarebbe spaventato, l’avrebbe guardata come si guarda un alieno? Avrebbe avuto il coraggio di accarezzarla, quella pelle ricucita?

Si era sbagliata: la ferita, con il passar del tempo, era sparita, ormai era sottile come un capello, non si notava nemmeno, quasi.

Il ticchettio… quello era diventato un gioco, fra lei e suo marito: era l’orologio della vita, il rumore della vita.

Svegliati e goditela!

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