Trombosi infantili: relazione Trombosi e infezioni

TROMBOSI NEI BAMBINI
Trombosi infantili: relazione Trombosi e infezioni

Le trombosi infantili costituiscono una problematica piuttosto rara in età pediatrica, con un’incidenza di circa 1 caso su 100.000 all’anno nei pazienti di età < 14 anni. Se si considera la sola popolazione di bambini ospedalizzati, invece, l’incidenza è di circa 1 su 200. Il dato di incidenza di eventi trombotici secondari ad ospedalizzazione è più che decuplicato negli ultimi vent’anni, come conseguenza dell’avanzamento delle tecniche rianimatorie e chirurgiche e del globale aumento dell’aspettativa di vita di bambini affetti da patologie croniche.

QUALI SONO LE CAUSE DELLE MALATTIE TROMBOTICHE IN PEDIATRIA?

Un evento trombotico – come spiega la dottoressa Paola Saracco – MD, PhD, Responsabile Ematologia Pediatrica, Ospedale Infantile Regina Margherita, Azienda Ospedale Università Città della Salute e della Scienza, Torino – è sempre la risultante dell’associazione di più fattori di rischio.

La presenza di un catetere venoso centrale rappresenta il singolo fattore più rilevante (il 60 -75% dei casi di trombosi < 18 anni sono catetere-associati), l’inserimento di un catetere venoso centrale determina anomalie quali:

danno endoteliale locale; alterazione del flusso sanguigno (rallentamento per parziale ostruzione vascolare, turbolenza per infusione locale di farmaci); attivazione della cascata coagulativa mediante la via “del contatto” da parte della superficie del catetere. Infine, considerando il contesto in cui si rende necessario il posizionamento di un catetere venoso centrale (instabilità emodinamica in bambino con patologia critica, infusione continua di antibiotici per patologia infettiva sistemica, infusione di chemioterapia per patologia oncologica), è evidente che il bambino che richieda un catetere venoso centrale presenterà di base un aumentato rischio trombotico, moltiplicativo rispetto al catetere venoso centrale stesso.

Un’anamnesi positiva per eventi trombotici venosi o arteriosi in età giovanile (< 50 anni) o di poliabortività in familiari di primo grado costituisce un fattore di rischio significativo e indipendente rispetto al riscontro di uno dei fattori trombofilici ereditari (mutazione del fattore V tipo Leiden, mutazione 20210 del fattore II, deficit di proteina C, di proteina S o di antitrombina III). Inoltre, esistono numerose patologie genetiche/ereditarie che si associano di per sé a un incrementato rischio trombotico (ad esempio, l’anemia falciforme, la sindrome nefrosica, l’omocistinuria) e alcune anomalie congenite che costituiscono l’equivalente di una trombofilia anatomica (ad esempio, l’agenesia della vena cava inferiore; la sindrome di May-Thurner con compressione di una o entrambe le vene iliache; la sindrome dello stretto toracico superiore con compressione della vena succlavia).

È SEMPRE NECESSARIO ESEGUIRE UNO SCREENING TOMBOFILICO?

Lo screening tombofilico prevede l’esecuzione di: ricerca di mutazione V Leiden e 202010 del fattore II; dosaggio di proteina C (saggio criogenico), dosaggio di proteina S libera, dosaggio dell’attività dell’antitrombina III; dosaggio dell’omocisteina. Generalmente si cerca di limitare la richiesta dello screening tombofilico alle situazioni in cui sia presente una familiarità per eventi trombotici o in caso di trombosi in sedi atipiche (eventi cerebrali, viscerali) oppure non chiaramente provocate oppure sproporzionate rispetto agli apparenti fattori di rischio.

L’utilità di eseguire uno screening tombofilico risiede nell’opportunità di modulare gli eventuali interventi di profilassi

sulla scorta della “severità” della trombofilia riscontrata (riscontrare un V Leiden in eterozigosi ha, ad esempio, un peso molto inferiore rispetto a un deficit di ATIII o di un V Leiden in omozigosi), sia per il soggetto indice sia, soprattutto, per i suoi familiari di primo grado (in particolare i soggetti di sesso femminile in età fertile, che possono incorrere in situazioni ad elevato rischio trombotico, quali l’utilizzo di estroprogestinici o la gravidanza).

INFEZIONI (da COVID) E TROMBOSI È UNA RELAZIONE PERICOLOSA?

QUANTO UNA INFEZIONE PU0’ CONTRIBUIRE ALL’INSORGERE DI UN EVENTO TROMBOTICO?

L’infezione da COVID-19 si associa a una marcata attivazione coagulativa e anche nel bambino può determinare una incidenza aumentata di trombosi venosa in particolare in caso di sindrome multisistemica infiammatoria (MIS-C).

Le recenti raccomandazioni pediatriche diffuse dall’International Society for Thrombosis and Hemostasis (ISTH) pongono l’attenzione ai fattori di rischio protrombotici aggiuntivi per dirimere l’attuazione della profilassi anticoagulante; inoltre nello stesso documento si asserisce che l’aumento del D-Dimero oltre 5 volte la soglia superiore del normale costituisce l’indicatore principale per avviare la profilassi antitrombotica. Negli USA è in corso a partire da giugno 2020 uno studio multicentrico di fase 2 sulla sicurezza, dosaggio ed efficacia preliminare della tromboprofilassi con enoxaparina nei bambini ospedalizzati con malattia COVID-19 correlata (inclusa MIS-C). 

Nei Centri Italiani sono stati redatti protocolli istituzionali basati sulle evidenze man mano emergenti della letteratura e sulla pratica clinica interna di expertise della gestione della trombosi in età pediatrica.

Nell’ambito del GDS di Emostasi Neonatale e Pediatrica SISET AIEOP è emersa la proposta di redigere un position paper con modalità “consensus tra esperti “, allargato alle principali competenze specialistiche coinvolte nella gestione dei pazienti pediatrici (tramadol) ospedalizzati per patologia COVID-19 correlata.

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